C’è chi ha rischiato di morire nel Mediterraneo per mantenere una promessa e chi lo ha fatto per fuggire dall’elettrochoc dei torturatori libici. Chi è scappato per proteggere i figli e chi se ne è andato perché non aveva più nessuno con cui stare, a soli 11 anni. L’arrivo dell’Aquarius a Valencia è un simbolo e un colpo allo stomaco di una politica europea incapace di fronteggiare unita il dramma delle migrazioni: ma le storie di chi scende dalla nave raccolte dai volontari di Medici Senza Frontiere e Sos Mediterranee sono quelle che nei porti siciliani e calabresi, o nell’avamposto di Lampedusa, conoscono da anni. Storie di violenze, soprusi e disperazione che nessun muro, in terra o in mare, potrà fermare.
‘Avevo 10 anni, ho perso i miei genitori in un incidente stradale. Ho visto mia madre e mio padre morire dissanguati. Sono andato a vivere da mia nonna, le volevo bene. Ma un anno dopo le hanno sparato in testa, davanti ai miei occhi’. A quel punto non c’era più nessuno con cui poter vivere. Sono finito in strada, bado a me stesso da quando ho 11 anni’, dice il ragazzo che però non si è arreso: tutto quello che ho sempre voluto fare è andare a scuola e diventare dottore.
Jibril invece ha 34 anni, viene dalla Nigeria. Lui è partito perché aveva una missione: ‘Ho promesso ad una donna che stava morendo che avrei raccontato ciò che ho visto. Lei era stesa, era molto debole, così ho cercato di farla sedere. Ma i carcerieri mi hanno picchiato più volte. E’ morta per mancanza di cure, per mancanza di acqua e cibo. A volte la gente era costretta a bere la propria urina’. Violenze che Chidubem conosce bene per averle vissute sulla sua pelle: ‘Mi prendevano, mi stringevano al collo e quando pensavano che avessi perso i sensi mi davano una scarica elettrica nelle parti intime’.
Quanto è durato? ‘E’ successo ogni giorno per un anno e quattro mesi. L’elettrochoc ogni giorno. In quella prigione pensavo di essere morto, di non avere un futuro’. Moses invece in Libia voleva proprio morire. Sono arrivato nel 2016 – ha raccontato ai volontari sulla nave – mi ci sono volute due settimane per attraversare il deserto dalla Sierra Leone ad Agades, in Niger e poi a Sebha, in Libia. Non è stato un viaggio facile, ho visto morire molte persone. Ma tu devi trovare dentro di te la forza per sopravvivere e andare avanti, se no muori. Anche lui in Libia è passato da un’organizzazione all’altra.
Catturano le persone, le sequestrano e poi chiedono i soldi. Se non arrivano, ti picchiano e ti torturano. Io sono stato venduto a Bali Walid e ho sperato di morire. Ma la morte non è arrivata. Ad un certo punto sono riuscito a scappare, ma mi hanno ripreso e venduto di nuovo. Ovunque in Libia come vedono un nero lo prendono e lo mettono a lavorare. Usano i neri come gli asini, come gli schiavi. Sulla nave c’era anche un ragazzo silenzioso, sempre solo. Era uno di quelli ripescati dall’acqua sabato scorso, caduto dal gommone con altre 40 persone quando sono arrivati i soccorritori. Non è pero quello il motivo della sua tristezza. Mi ha raccontato – dice Sidonie, operatrice di Intersos-Unicef che ha viaggiato negli ultimi giorni a bordo della Dattilo – che in Libia lo hanno violentato più volte. Era sempre triste e solo, ma ieri finalmente ha iniziato a sorridere. Ora per lui e per tutti gli altri 628 inizia una nuova vita. Mi chiedo perché l’Italia ci ha respinto – ha domandato uno di loro agli operatori umanitari – Ci deve essere una ragione. Qualsiasi cosa accade, c’è sempre una ragione. Ma Dio ha un piano migliore per noi, Dio non ci respingerà ma.